Villaggi sommersi, l’ascesa dell’acquacoltura ed il futuro delle foreste di mangrovie
Sono bastati qundici anni per far sprofondare il villaggio costiero di Bedono, sull’isola di Giava in Indonesia. Il tempo di radere al suolo la foresta di mangrovie che circondava il villaggio di pescatori, convertire il territorio in piscine per la gambericoltura, per poi assistere alla invasione dell’oceano che in breve si è portato via tutto. Il paese è stato sommerso, gli abitanti si sono trasferiti, le vasche sono scomparse. Il terreno, privato delle radici delle piante che intrappolavano i è stato eroso dal mare. Ora le mangrovie stanno ricrescendo sui ruderi del paese.
Liberare la costa dalla naturale protezione delle mangrovie ha causato un disastro lungo tutta Giava. E questo non è che l’inizio.
L’sola di Giava è ormai quasi priva di foreste di mangrovie. Un fato simile subiscono le altre coste sia in Indonesia che nel resto dell’ Asia, in centro America. Il processo di disboscamento delle mangrovie è cominciato anche in Africa.
Cosa significa per le popolazioni costiere perdere l’ecosistema delle mangrovie? Quale l’impatto a livello globale? Abbiamo incontrato pescatori, esperti, politici per conoscere il futuro di questo ecosistema.
Le mangrovie proteggono la costa dall’ erosione, dalle inondazioni, dalle tempeste e da piccoli tsunami. Sono una risorsa per i pescatori, che raccolgono molluschi, gamberetti, granchi e pesci che vivono e si riproducono nelle foreste di mangrovie. Way Kambas National Park, Provincia di Lampung, Sumatra, Indonesia, 2016.
Malgrado la loro scarsità le mangrovie immagazzinano enormi quantità di CO2. Secondo alcune stime conserverebbero circa 20 miliardi di CO2 che, grazie alla deforestazione, viene ora rilasciata nell’atmosfera. Ma siamo solo all’inizio, infatti vista la previsione della crescita della domanda dei prodotti di aquacoltura in ambienti salmastri (tipici delle mangrovie) soprattutto nel Sud Est Asiatico, a meno di non migliorare la produttività della coltivazione di gamberetti e altri prodotti ittici, il taglio delle mangrovie procederà, e sempre più rapidamente. Negli ultimi anni, l’espansione delle coltivazioni di olio di palma sta accelerando il processo di deforestazione delle mangrovie.
La storia di Bedono, il villaggio fantasma
Bedono, il villaggio inghiottito dal mare, su Google Earth si vede benissimo. Basta poi visualizzare le immagini satellitari di dieci anni fa e confrontarle con quelle di oggi per osservare la scomparsa di case, strade, e soprattutto di centinaia di vasche per la coltivazione di gamberetti.
Una volta nei pressi di Samarang sull’isola di Giava Bedono era un villaggio di pescatori, ma negli ultimi 30 anni l’industria della gambericoltura ha stravolto la costa e i pescatori hanno abbandonato la pesca per l’aquacoltura. Una industria cresciuta senza pianificazione, troppo in fretta, senza supervisione di organi per la conservazione del territorio. Ma una industria che comunque è durata poco. Privato della fascia protettiva delle mangrovie in una decina di anni il paese si è trovato alla mercé delle correnti marine, delle maree, delle onde, della subsidenza (lo sprofondamento del terreno soffice su cui crescono le mangrovie), ed è scomparso, divorato dall’oceano.
Anni 2003-2015, il villaggio evanescente. Una immagine di Google Earth del 2003 mostra pozze per l’aquacultura, un minuscolo relitto della foresta di mangrovie, ed il villaggio di Bedono (in centro, in alto). Nel 2015 il villaggio non c’è più. Non ci sono più le piscine. La foresta è, in parte, ricresciuta.
Le mangrovie sono autentiche produttrici di terreno, e a Bedono proteggevano la costa dalla erosione e dalle alluvioni. Oggi la linea della costa è indistinta, circa 1.5 chilometri più all’interno rispetto ad un tempo. Circa 700 ettari di piscine per la gambericoltura, case, infrastrutture sono state portate via dal mare. L’acqua salina si è intrusa nella falda acquifera rendendo inutili i pozzi e minacciando le coltivazioni di riso più all’interno. Il caso di Bedono non è unico: erosioni, sprofondamenti, stanno avvenendo in diversi punti della costa di Giava.
“In tema di resilienza, mantenere le mangrovie è una delle soluzioni più semplici e naturali per ridurre i rischi naturali lungo le coste tropicali”, dice Nyoman Suryadiputra, della ONG Wetlands International.
Pasijah e la sua famiglia sono una delle due famiglie rimaste nel villaggio di Bedono. Semarang, Giava, Indonesia, 2016
Pasijah però non si è arresa e ancora vive in questa landa in parte sommersa. È una delle due persone rimaste a Bedono. Il terreno continua a sprofondare sotto casa sua, ma lei non intende muoversi. Fino ad ora ha dovuto alzare la sua abitazione di mezzo metro.
“Spero di non dovermi mai spostare. Io voglio vivere qui”, dice Pasijah.
Le sue radici sono profonde almeno quanto quelle delle mangrovie che ora circondano la sua casa. Pasijah ora si è creata una professione: raccoglie il pescato di alcuni pescatori della zona e lo vende al mercato in un centro non lontano. Chiamatelo adattamento. È una vita solitaria, dice, ma il business è buono. Coltiva anche mangrovie, che poi vende al governo e ai privati che stanno rimboscando aree affette dalla erosione marina. Intorno a lei il bosco è ricresciuto, ma non è detto che cresca ulteriormente: le mangrovie attecchiscono in certe condizioni ambientali e l’innalzamento del livello marino, l’esposizione alle correnti, e la diversa salinità potrebbero impedirne una ricrescita completa.
Come piccoli proprietari e grandi industrie ridisegnano le coste tropicali
Quattro ruote rimestano, ossigenandola, l’acqua salmastra e verdastra del bacino di circa 300 metri quadri. Al suo interno una moltitudine di gamberetti gira in senso antiorario, nessuno si azzarda controcorrente. Sono ben pasciuti. Il proprietario ne favorisce la crescita con fertilizzanti artificiali. È un produttore che ha investito in tecnologia e produce quindi in maniera intensiva. In genere queste vasche misurano meno di un ettaro, ma producono fino a cento volte di più di una pozza tradizionale (che invece è grande tre volte tanto). Una vasca in cemento, con trattamenti artificiali, può produrre fino a 20 tonnellate di gamberetti in un anno. La maggior parte dei piccoli produttori però non si può permettere gli investimenti neccessari per passare ad una coltivazione intensiva, e spesso non ha le conoscenze per farlo.
Kasrudin, gambericoltore del villaggio costiero di Sawah Luhur, mostra un pugno di gamberetti appena pescati. Quanto a lungo potrà fare il suo mestiere? Banten, Giava, Indonesia, 2016
Hasan Abdullah, invece, gestisce ben 7 piscine su 2 ettari, di cui non è proprietario. Il terreno è stato liberato dalle mangrovie, per poter più facilmente catturare pesci e gamberetti. Lo fa seguendo una strategia semi-intensiva. I gamberetti accedono alle vasche naturalmente seguendo le maree, come nel metodo tradizionale, ma poi si aiuta con prodotti chimici per catturare i pesci per rivenderli infine sul mercato. Sono prodotti giapponesi e cinesi. Questi veleni non uccidono i gamberetti, solo i pesci.
“Ma i pesci non sono contaminati da quel prodotto che metti per ucciderli?”, chiediamo dubbiosi. “Non importa, io mangio il pesce, non i prodotti chimici”, risponde il pescatore.
Il sistema da lui adottato, e condiviso dalla maggior parte dei piccoli gambericoltori indonesiani, lascia alle sue spalle un terreno sterile, contaminato. Viaggiando lungo le coste di Java, si nota che è il sistema più diffuso.
La produzione industriale, quella per il mercato estero, è altra cosa. Una delle più grandi industrie è CP Prima, che opera principalmente a Lampung, sull’ isola di Sumatra. È gigante, niente a che vedere con Hasan Abdullah e il produttore intensivo.
“L’area operativa di CP Prima copre circa 3500 ettari, abbiamo più di 10000 vasche”, dice Arianto Yohan, direttore della Divisione di Food Processing per CP Prima. La società esporta in tutta Europa, negli Stati Uniti, in Giappone. È la più grande industria di prodotti di acquacoltura in Indonesia. La loro area produttiva copre una superficie pari a mezza Manhattan.
Da alcuni anni i loro prodotti si avvalgono delle certificazioni della Aquacolture Stewardship Council (ASC) e GlobalGap. Sono le uniche certificazioni di qualità e sostenibilità (ambientale e sociale) dei prodotti ittici. Ottenerle ha un costo, e solo poche, grandi, società se lo possono (o vogliono) permettere. “Per il mercato Europeo, queste certificazioni sono fondamentali, la pressione del pubblico è forte”, dice Arianto. La Unione Europea vigila. “Negli Stati Uniti c’è meno attenzione.”
Il mercato domestico è altra cosa. Non sono richiesti gli standard di sostenibilità e sicurezza elevati neccessari in Europa o negli Stati Uniti. L’intero concetto di sostenibilità ambientale, qui, è più… liquido. Ma insieme all’economia del Paese, cresce anche il mercato interno. Aumenta la richiesta di proteine da prodotti ittici, il cibo del futuro. Così il 40% dei prodotti di acquacoltura è destinato al mercato interno. Per l’industria gli scenari di sfruttamento si allargano.
“Ci sono ancora molte coste in Sumatra, Kalimantan, e perfino alcune aree di Giava, dove potremmo espandere le nostre operazioni!”, dice Arianto. Quando si parla di espansione lungo le coste indonesiane, si parla di ecosistemi di mangrovie sacrificati.
In Indonesia alcune norme prevengono la concessione di nuove aree attualmente coperte da foreste di mangrovie. Dal 2012 esiste anche una Strategia Nazionale per la Gestione degli Ecosistemi di Mangrovie (SNPEM). Gli ecologi dicono però che questa strategia esclude la maggior causa della deforestazione costiera: l’acquacoltura, che neccessita di acque salmastre.
Il braccio di ferro tra economia ed ecologia insomma continua. Intanto comunque ci sono piani per deregolamentare alcune aree e cederle in uso alle industrie di acquacoltura e olio di palma. Secondo gli esperti, continuando così, nei prossimi dieci anni altri 700000 ettari di mangrovie andranno perduti.
Penaeus Vannamei è uno dei gamberetti tropicali tra i più commercializzati. Indonesia, 2016
Alcuni produttori locali propongono una soluzione: mantenere le mangrovie, ridurre la produttività, ma sostenere le economie locali
Il sole tropicale si abbatte con prepotenza sulle coste di Banten, Giava. Durante il giorno nessun pescatore si azzarda a compiere lavori di fatica, le distese di vasche per i gamberetti sono un deserto terracqueo sconfinato. Nelle pozze l’acqua è calda e i gamberetti, senza il riparo delle radici delle mangrovie, sono stressati. In alcune si scorge qualche pesce che galleggia, morto stremato. Grazie agli addittivi chimici ed alla crescita rapida, la coltura dominante, quella semi-intensiva, comunque produce bene. Ma solo per qualche anno, poi la produttività crolla, terreni e acque sono contaminati. Le acque si impoveriscono di ossigeno. I gamberetti si indeboliscono, hanno bisogno di fertilizzanti e medicinali contro le infezioni.
La soluzione adottata nel villaggio di Tapak, sempre sull’isola di Giava, è diversa. Qui i pescatori non hanno mai tagliato le mangrovie.
Un bosco di mangrovie mature ombreggiano i canali di marea intorno al villaggio di Tapak. La loro presenza è benvoluta dagli abitanti, che trovano quiete e riposo, ma sono anche produttrici di nutrienti per il terreno e le acque della foresta, che favoriscono la biodiversità della costa. Semarang, Giava, Indonesia, 2016
Muhammad Arifin e i membri della associazione Prenjak hanno preso in gestione una serie di pozze per l’acquacoltura. I canali e gli argini delle vasche sono coperti di mangrovie e sono ombreggiati, alcune piante hanno anche 30 anni.
Gli abitanti di Tapak non hanno tagliato le mangrovie ed hanno mantenuto il sistema produttivo tradizionale, chiamato Wanamina.
Qui si possono catturare granchi, diverse specie di gamberetti e di pesci. Certo, la produzione non può competere con quella intensiva. Ma il sistema è sostenibile, dice Arifin. Anzi, secondo lui è l’unica soluzione sostenibile per continuare la coltivazione dei gamberetti e non compromettere le mangrovie. La gente del villaggio trova riposo nei boschi di mangrovie. Li vedi a pescare anche nel mezzo della giornata, al riparo degli alberi. “ Da noi le vasche sono produttive da almeno 50 anni, intorno a noi vedo pescatori che devono abbandonare le loro pozze. La nostra qualità della vita è migliore”, spiega.
Eccola spiegata la sostenibilità, secondo Arifin.
Arifin, il giovane presidente della comunità “Prenjak”, del villaggio di Tapak, si occupa attivamente della conservazione di questo lembo della foresta. Qui insieme al tesoriere Nur ed alla responsabile delle relazioni con il pubblico Aris. Semarang, Giava, Indonesia, 2016
Ripristinare le mangrovie, l’oasi nel deserto
La piscina di Rudin è come un nido verde in mezzo ad un territorio desolato di pozze e argini di fango. Dopo anni di professione come moto-taxi Rudin è stato coinvolto in un progetto di ripristino ambientale. Grazie al supporto economico fornito dalla ONG Wetlands International ha piantato mangrovie in alcune vasche e si è buttato nell’acquacoltura. Il suo guadagno giornaliero dovuto alla pesca è di circa 25000 rupie. Ogni quattro mesi raccoglie il pesce e questo gli frutta 2.5 milioni di rupie. A questo si aggiunge il commercio di propaguli per progetti di rimboschimento governativi (le mangrovie non producono semi, ma piantine già “pronte per l’uso”, chiamate propaguli).
Supirò, pescatore, come ogni sera estrae la trappola per i gamberetti, bubu, dalla sua vasca. Insieme ai gamberetti Supirò cattura granchi e piccoli pesci. Banten, Giava, Indonesia 2014
Intorno alle pozze di Rudin lo scenario è desolante. Pesticidi, fertilizzanti, acque contaminate e terre incolte. Dopo la pesca con la saponina, un molluschicida usato per ammazzare i pesci di una pozza (senza uccidere però i gamberetti), le vasche richiedono settimane per depurarsi. Spesso la saponina è gettata senza attenzione per le quantità, l’uso eccessivo è una norma. Per settimane rimangono improduttive, le acque della vasca sono intossicate. I gamberetti non crescono, i pesci non tornano nella pozza.
Ora però molti pescatori guardano all’oasi di Rudin con interesse. “In molti vorrebbero provare a ripristinare le mangrovie nelle pozze che gestiscono”, dice il giovane pescatore. “Spesso però le pozze non gli appartengono e i proprietari non hanno interesse a modificare le pratiche della pesca”. I proprietari abitano nelle grandi città, lontano da questa landa deserta e intossicata.
Un vecchio sacco di nutrienti artificiali per i gamberetti abbandonato su un argine di fango rinsecchito ai margini di una tambak, una pozza per la gambericoltura. Come risultato del taglio delle mangrovie le pozze non possiedono più nutrimento per i gamberetti, anche per questo i pescatori devono ricorrere ad addittivi e fertilizzanti chimici, importati da Giappone o Cina. Banten, Giava, Indonesia, 2016
L’ incredibile corsa alla deforestazione delle mangrovie
Giava detiene il record mondiale per la perdita dell’habitat di mangrovie: ha perso almeno il 70% delle foreste originali. Ll’Indonesia è campione mondiale nella deforestazione degli ambienti costieri. Un tempo l’arcipelago indonesiano era coronato da 4.2 milioni di ettari di mangrovie, oggi ne rimangono 3 milioni. Di cui la maggior parte è scomparsa negli ultimi 30 anni.
A livello globale la deforestazione delle mangrovie procede ad un ritmo di 1% di foresta tagliata e convertita ad altri usi ogni anno, per l’Indonesia il ritmo è tra 2% ed 8%.
Il 40% del disboscamento delle mangrovie è legato alla rivoluzione blu: l’ascesa dell’acquacoltura.
Secondo gli analisti la domanda di gamberetti coltivati triplicherà nelle prossime due decadi e questo, fanno eco gli ecologisti, non può che tradursi nel disboscamento delle coste tropicali a meno di non introdurre metodi di acquacoltura innovativi.
Purtroppo la domanda crescente di prodotti di acquacoltura, soprattutto dalle grandi città, ha un impatto sulle comunità locali, sui più poveri. “Senza la cintura verde che li protegge, la risalita del livello marino è una minaccia per chi vive sulle coste”, spiega Nyoman Suryadiputra, a capo della sezione indonesiana di Wetlands International. “Non è solo l’erosione, la minaccia, ma anche l’intrusione di acque saline che contamina terreni e pozzi”. Anche gli edifici, dice Suryadiputra, iniziano ad essere corrosi dalle acque salmastre.
Timan, gambericoltore di Sawah Luhur, rimesta a mano il fondale del proprio tambak, la vasca per la gambericoltura. È un duro lavoro che serve ad evitare l’insabbiamento della vasca. Le mangrovie trattenevano parte di questo fango, ma ora non ci sono più. Banten, Giava, Indonesia, 2016.
L’Indonesia si è impegnata nella riduzione del taglio delle mangrovie. C’è perfino un decreto (decreto presidenziale 32/1990) per la protezione delle coste indonesiane. Ma corruzione, illegalità, e i garbugli della politica hanno permesso il degrado dell’habitat costiero. Se non bastasse la corruzione, c’è il ministro della pesca, la ferrea Signora Susi Pudjiastuti, Ministro degli Affari Marittimi e della Pesca. Da un lato promette di non intaccare le restanti foreste di mangrovie, dall’altro dichiara di voler declassare alcune aree della costa per incentivare gli investimenti dell’industria ittica.
L’Indonesia è al crocevia. Può continuare il suo modello di crescita economica, e nel frattempo liberare 190 milioni di tonnellate di CO2 come conseguenza della deforestazione delle mangrovie (sarebbe l’equivalente delle emissioni di 40 milioni di auto in un anno). Oppure può modificare la traiettoria, interrompendo il taglio. Fermandosi, ora, il Paese taglierebbe le proprie emissioni del 26%, il target che si è imposto di ottenere per il 2020. Gli esperti non hanno dubbio: fermare la deforestazione è il sistema più semplice ed economico per ridurre, drasticamente, le emissioni di CO2.
Il taglio delle mangrovie è un disastro ed è globale, dall’Asia alle Americhe.
Riconvertiti in uso agricolo, in acquacoltura, o infrastrutture urbane, abbiamo sacrificato più di ¼ delle mangrovie originali in meno di 50 anni.
“Di questo passo le mangrovie potrebbero scomparire entro la fine di questo secolo”, dice Daniel Murdiyarso, scienziato presso il Centro Internazionale di Ricerca sulle Foreste (CIFOR). Conservarle equivale ad un risparmio tra 6 e 24 miliardi di dollari in carbonio stoccato nel suolo. “Nella sola Indonesia il benefit di mantenere le mangrovie si aggira intorno ai due miliardi di dollari l’anno”, spiega Murdiyarso. La posta in gioco è tale che gli esperti stanno considerando di inserire obiettivi specifici sulle mangrovie nell’Agenda post-2015 per lo Sviluppo Sostenibile delle Nazioni Unite.
Daniel Murdiyarso, esperto mondiale di ecosistemi di mangrovie e direttore scientifico del Centro di Ricerca Internazionale sulle Foreste (CIFOR) a Bogor, Giava. Secondo le sue stime, l’impatto sul clima di 100 grammi di gamberetti tropicali prodotti ed esportati in Europa è pari alla immissione in atmosfera di circa 1000 tonnellate di CO2. Bogor, Giava, Indonesia, 2016
Certo, le foreste di mangrovie coprono appena 137 mila km2. Pochissimo, rispetto ai 40 milioni di km2 delle foreste globali. Ma sono piante che crescono in ambienti paludosi costieri e che, per la loro particolare biologia, sono eccezionali nel sequestro di carbonio dall’atmosfera. Per ettaro possono sequestrare fino a 5 volte più CO2 delle foreste pluviali. In altre parole, in termini di rilascio di CO2, un ettaro di foresta di mangrovie riconvertito in acquacoltura equivale a 5 ettari di foresta pluviale convertiti ad uso agricolo. “Le mangrovie sono meno dell’1% delle foreste globali, ma contribuiscono per il 10% alle emissioni di CO2 dovute alla deforestazione”, dice ancora Daniel Murdiyarso.
Le foreste dimenticate ai margini dei continenti. Una fascia sottile che non è terra e non è oceano
Se a livello globale la domanda di prodotti ittici cresce, quella di prodotti di acquacoltura aumenta in maniera sfrenata, anche per compensare il crollo degli stock ittici marini. Nel 1972 l’acquacoltura produceva globalmente circa 16 mila tonnellate tra pesci e crostacei. Nel 2014 si producevano 66 milioni di tonnellate, e la curva segnava ancora una crescita quasi verticale. Nel 2030 è probabile che i prodotti di acquacoltura superino il pescato.
“Se da un lato le quantità crescono, dall’altro la manodopera diminuisce di costo”, spiega Tiziano Scovacricchi, dell’Istituto di Scienze Marine (ISMAR – CNR). “Vent’anni fa era raro vedere su una tavola in Europa un piatto di gamberetti tropicali, era qualcosa di speciale. Oggi è normale. Ed il costo di questi prodotti è basso”, dice.
Un pugno di gamberetti tropicali appena bolliti, su una tavola italiana. L’impatto in termini di quantità di CO2 prodotta per allevare 100 g di Penaeus Vannamei in Indonesia, è stato stimato essere equivalente a 1000 tonnellate di CO2. Questo calcolo non tiene conto dell’impatto dell’imballaggio e del trasporto verso le tavole europee. Italia, 2016
E poi c’è l’Unione Europea. Nel vecchio continente l’import di prodotti ittici è strettamente regolamentato. Garantito: in gamberetti che vi trovate nel piatto è sicuro. I controlli di qualità avvengono lungo tutta la filiera, dal produttore fino allo smercio. I livelli di pesticidi, fertilizzanti, addittivi sono stabiliti, controllati, verificati. Non esiste continente su questo pianeta in cui i controlli siano tanto rigorosi. La EU vi garantisce prodotti sicuri, e sempre più economici.
Il veterinario del Mercato Ittico di Milano, dott. Valerio Ranghieri, ispeziona i prodotti ittici che arrivano al mercato. È l’ultimo di una lunga filiera di controlli di sicurezza e qualità. Italia, 2016
All’interno del Mercato Ittico di Milano. Italia, 2016
Certo, sempre più economici e sicuri. Ma è difficile che i prodotti possano essere allo stesso tempo economici e sostenibili. In breve, la vostra insalata di gamberetti potrà essere libera da contaminanti tossici, ma potrebbe essere prodotta in maniera insostenibile. In Europa i controlli sulla qualità e sicurezza sono rigorosi, non altrettanto quelli sulla sostenibilità economica e sociale del prodotto.
Saša Raicevich ricercatore presso l’ISPRA — Istituto Superiore per la Protezione e la Ricerca Ambientale, Struttura Tecnico–Scientifica di Chioggia (VE) dice: “I prodotti di importazione sono controllati per la sicurezza e l’igiene, ma non per la loro sostenibilità ecologica e sociale.”
A confermarlo è Xavier Guillou, del Direttorato Generale degli Affari Marittimi e della Pesca della Commissione Europea che ammette la presenza di una regolamentazione sulla sicurezza, ma l’assenza di una politica per la sostenibilità dei prodotti d’importazione. “Ci stiamo muovendo in quella direzione”, dice Guillou.
I prodotti ittici che entrano sul territorio europeo sono sicuri per il consumatore, ma non sono neccessariamente prodotti secondo criteri di sostenibilità sociale e ambientale.
Il vostro stomaco è insomma protetto, ma non il lavoro e la salute di chi rigira il fango nelle pozze per la gambericoltura a Giava, e non l’habitat in cui questa industria fiorisce. Oggi ci sono alcune certificazioni come Global Gap e ASC (Aquaculture Stewardship Council). Si tratta però di certificazioni volontarie, hanno un costo, non tutti i produttori sentono la neccessità di impegnarsi nelle modifiche e nei controlli neccessari per ottenere queste certificazioni.
I prodotti di importazione rimangono competitivi. Viceversa ai produttori europei sono imposti standard elevatissimi, anche in materia di sostenibilità ambientale. Per questo un gamberetto prodotto in Europa avrà un prezzo decisamente più elevato rispetto a quello importato dall’Ecuador o dall’Indonesia. “La non sostenibilità della gambericoltura in Asia e nelle Americhe ha un impatto negativo sulle risorse”, spiega Raichevich. “Questo impatto si misura a lungo termine, non nell’immediato. Se le risorse vengono sfruttate in maniera sostenibile, la produttività rimarrà stabile nel tempo. Viceversa, se sfruttate in modo insostenibile, la biomassa comincia a diminuire, i costi per la produzione aumentano e le ricadute saranno sulla manodopera prima e sul consumatore poi.”
La perdita di mangrovie, insomma, è l’anticamera del collasso degli ecosistemi costieri in molte regioni tropicali, immette quantità massiccie nell’atmosfera e mette a rischio la sicurezza di molte comunità umane che abitano le coste di mari e oceani tropicali.
Oggi la gambericoltura è sotto scrutinio da parte della società civile, che chiede maggior attenzione per la sostenibilità delle produzioni ittiche. Ma la deforestazione delle mangrovie continua a ritmo serrato forse perché meno presenti nei media rispetto alle foreste pluviali o boreali. O forse perché ai margini dei continenti, in una fascia che non è terra e non è oceano. L’impatto sul clima, sulla biodiversità, sulla sicurezza di molte comunità umane che abitano le coste di mari e oceani tropicali è impressionante e colpisce soprattutto le popolazioni più esposte perché residenti in paesi alla rincorsa della crescita economica. Secondo gli esperti però non c’è dubbio, le mangrovie sono una componente essenziale nella resilienza delle comunità costiere e nella mitigazione degli impatti del cambiamento climatico, interromperene la deforestazione è dunque un imperativo.
Prodotto da:
Jacopo Pasotti (@medjaco)
Elisabetta Zavoli (@elizavola)
Webdoc:
Alessandro D’Alfonso
Contributo fotografico:
Ulet Ifansasti
Grazie a:
Wetlands International (Indonesia)
CIFOR (Indonesia)
ISMAR-CNR (Italy)
University of Wageningen (The Netherlands)
ISPRA (Italy)